Privacy ed esperienze personalizzate: esiste un equilibrio?
Navigare in rete implica “lasciare” sempre nuove tracce di noi ad ogni nuovo passo.
Queste tracce non vanno perse, ma vengono raccolte ed utilizzate dalle aziende per fornire agli utenti esperienze sempre più personalizzate e su misura.
Se da una parte questi contenuti ad hoc permettono all’utente di vivere esperienze sempre più performanti e immersive con i brand, dall’altra generano non poca preoccupazione attorno alle modalità con cui vengono trattati i dati raccolti per la loro creazione.
Privacy online: cosa pensano gli utenti?
A proposito della percezione che gli utenti hanno sulla vulnerabilità dei propri dati, uno studio condotto da Selligent Marketing Cloud ha evidenziato che:
- una parte dei consumatori, il 33% pensa che i brand debbano pianificare strategie di marketing per anticipare i desideri degli utenti;
- il 77% ritiene invece che le aziende dovrebbero agire nei confronti degli utenti con maggiore umanità, invece di considerarli solo un dato all’interno del target oggetto di vendita;
La preoccupazione degli utenti in materia di privacy online è evidente:
- il 75% degli utenti teme che avvenga o sia avvenuta una violazione attorno alle proprie informazioni;
- un altro 88% invece pensa che i dati forniti ad un’azienda siano poi stati condivisi ad altri partner senza un consenso esplicito;
Un pensiero ragionevole se si tiene conto di alcuni recenti scandali in materia di privacy online.
WhatsApp e la nuova informativa privacy di Mark Zuckemberg
In un’intervista rilasciata a Forbes, l’ex-proprietario di WhatsApp, Brian Acton, si era dichiarato pentito della scelta di vendere la nota App di messaggistica istantanea, in quanto la transazione aveva comportato l’inevitabile passaggio dei dati degli utenti nelle mani del nuovo proprietario: Mark Zuckemberg.
Una volta avvenuto il passaggio, la nuova società aveva cambiato le condizioni relative alla privacy per entrare in possesso delle informazioni degli utenti circa:
- frequenza e modalità d’uso delle App appartenenti al nuovo gruppo;
- account abusivi e potenzialmente pericolosi;
- informazioni utili alla promozione di prodotti e inserzioni pubblicitarie;
Per l’ultimo punto, WhatsApp richiedeva addirittura di manifestare il proprio consenso entro 30 giorni, pena l’interruzione del servizio di messaggistica.
Facebook e le “terze parti”
Dopo Cambridge Analytica, pochi giorni fa, un nuovo scandalo ha travolto il CEO di Facebook, Mark Zuckemberg.
Durante un’indagine condotta nel Regno Unito relativamente alle fake news, sono state divulgate alcune e-mail private scambiate all’interno della piattaforma social.
Nelle e-mail incriminate si fa riferimento alla possibilità, messa a disposizione da Facebook, per terze parti, di accedere alle informazioni degli utenti senza che loro ne siano a conoscenza.
Questa è in sostanza l’accusa di Damian Collins, politico inglese che, dopo aver pubblicato online le e-mail incriminate, sottolinea come la società di Mark Zuckemberg abbia omesso una parte dell’informativa privacy agli utenti e abbia reso difficile cambiarne le impostazioni per il sistema Android una volta accettata.
La conferma (parziale) di queste accuse sarebbe arrivata direttamente dal social che, per ostacolare alcuni aggiornamenti dei rivali, aveva chiuso l’accesso ai dati degli utenti a queste “terze parti”.
In particolare, la manovra aveva lo scopo di bloccare l’accesso al rivale Twitter che, grazie ad uno strumento di video-sharing, sarebbe stato in grado di rintracciare le amicizie di Facebook.
LinkedIn e la vendita di e-mail alle agenzie di marketing
Anche Linkedin, noto social network finalizzato alla ricerca di un nuovo lavoro, non è uscito illeso dalla “guerra per i dati” degli utenti.
Meno di due settimane fa si è infatti trovato al centro di un’indagine irlandese sull’utilizzo improprio degli indirizzi e-mail dei propri utenti.
Pare infatti che Linkedin abbia condiviso, a scopo pubblicitario, 18 milioni di indirizzi e-mail con agenzie di marketing.
In realtà, fino all’entrata in vigore del nuovo GDPR, non era un problema per i social condividere i profili degli utenti per ottimizzare i propri annunci, ma dopo l’entrata in vigore del regolamento queste azioni sono vietate in difesa della privacy degli utenti.
Tuttavia, la violazione dei dati fatta da Linkedin sembra essere avvenuta poco prima dell’effettiva entrata in vigore del GDPR mettendo il social a riparo da qualsiasi contestazione.
Qwant: il broswer che protegge la tua privacy
C’è modo quindi di proteggere i dati degli utenti durante la navigazione? Qualcuno si è già mosso in questa direzione.
Brave, broswer open-source annunciato dal co-fondatore di Mozilla e dal creatore di JavaScript, ha stretto un accordo con Qwant, motore di ricerca europeo fornito dalla omonima società francese, conosciuto per non profilare gli utenti, né usare bolle di filtraggio per presentare i risultati della ricerca.
L’accordo vedrà Qwant come motore di ricerca predefinito di Brave, a partire da Francia e Germania.
Si tratta di un progetto molto importante poiché entrambe puntano verso lo stesso obiettivo: proteggere la privacy degli utenti su Internet.
Privacy e consenso: c’è una soluzione?
Nonostante quanto appena detto, trovare un equilibrio tra l’accesso ai dati degli utenti e la creazione di esperienze personalizzate non è un’impresa impossibile.
Se gli utenti sono soddisfatti delle esperienze personalizzate, cambiare strategia non ha senso.
Ha molto più senso sfruttare questo atteggiamento positivo e cercare di costruire un rapporto di fiducia con gli utenti che permetta di accedere alle informazioni in modo naturale, senza violazioni.
Se l’utente percepisce un valore aggiunto in questa transazione di dati, le aziende potranno utilizzarli senza paura di ripercussioni per costruire esperienze su misura delle quali possano beneficiare entrambe le parti.
Violare la privacy dell’utente o non tener conto della sua volontà può solo danneggiare il tuo business. Creare un rapporto di fiducia può aiutarti invece a costruire tattiche vincenti.
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